Sistemo il cappuccio sulla mia testa, cercando di coprire come posso il viso.
Espiro.
Inspiro.
Tengo il ritmo.
Passo dopo passo.
Stringendo i pugni. Gomiti chiusi, leggermente piegati, che sfregano i lati del busto.
Schiena dritta.
Ginocchia in linea con l'appoggio a terra, per evitare inutili sprechi di energia.
Sguardo fisso davanti a me. I capelli stretti in una morbida coda, sfiorano dolcemente le spalle.
Proseguo, imperterrita, cercando di pensare solo alle note di questa canzone, che filtra nelle mie orecchie, grazie agli auricolari.
Sento il sudore scivolare lento, lungo la schiena.
Serro la mascella. Non per la fatica, ma per il vento che sferza impunito sul viso, provocandomi un leggero dolore.
Respiro.
Nonostante le piccole fitte, mi piace sentire l'aria gelida sulla pelle.
Mi fa sentire viva.
Forte.
Capace di qualsiasi cosa.
Perché se riesco a non farmi piegare dal maestrale, posso sperare di superare ogni cosa.
Anche di dimenticare.
O forse no.
Forse non voglio dimenticare.
Alzo leggermente lo sguardo, per ammirare l'azzurro del mare, increspato dalla corrente e mi soffermo proprio lì, dove nascono e s'incontrano, tutte le sfumature del blu e l'acqua è talmente cristallina, che si può vedere il fondale e tutte le splendide creature che lo popolano.
E' così bello che potrei guardarlo per ore, senza mai stancarmene davvero.
Una sferzata improvvisa, più forte delle altre, mi congela, facendomi chiudere gli occhi.
D'istinto li stringo ancora più energicamente.
E un ricordo, violento, nella sua asprezza, mi travolge inaspettato.
Brutale, come sempre.
"Lo sento arrivare.
Che fende l'aria.
Che mi colpisce con durezza. Lasciandomi senza parole, basita e sconvolta al tempo stesso. Spalanco gli occhi, avvertendo un disgustoso sapore metallico, inondarmi la bocca.
Un sottile rivolo di sangue, si fa velocemente strada sulle labbra e sul mento.
Non faccio in tempo ad asciugarmi.
Eccone un altro.
E un altro.
Ancora.
Ovunque.
Su di me.
Vorrei urlare.
Dire "basta", ma non ci riesco.
Non più.
La voce mi ha abbandonata ormai da molto tempo.
Vorrei solo essere morta.
Per non provare più nulla.
Per non pensare più a niente.
Per non essere più... niente".
Per un attimo ho paura di cadere all'indietro, ma mi costringo a non farlo.
Non lo farò.
Porto una mano sul viso.
E' ancora lì. Lo percepisco sotto i polpastrelli, il calore della pelle livida e gonfia.
Espiro.
Non voglio pensarci. Inspiro.
Il respiro accelerato, non per la fatica della corsa.
Sento la paura attraversarmi le vene. Scorrere veloce.
Guardo ancora il mare, cercando inutilmente qualcosa a cui aggrapparmi, per calmare i battiti del cuore.
Ma l'unica cosa che vorrei vedere, l'unica cosa al mondo, in grado di farmi stare bene, non è qui.
Volgo lo sguardo in quel punto preciso, dove so essere, al di là del mare...
Questo mare che amo e odio con tutta me stessa.
Perché è qui, che Inferno e Paradiso si incontrano ogni fottuto giorno.
Trattengo un singhiozzo a fatica.
Spingo nella corsa, voglio dimenticare.
O forse no. Respiro.
Voglio cancellare ogni cosa. Mi concentro.
Non voglio più pensare. Espiro.
Al suono insopportabile di quelle nocche che mi colpiscono. Inspiro.
Voglio lasciar scivolare via quella sensazione di orrore dalla mia pelle.
Voglio scordare il modo in cui il dolore si è impadronito di me, togliendomi il fiato e la voglia di sorridere ancora.
Per l'ennesima volta.
Proseguo a testa bassa, sistemando al meglio questo dannato cappuccio.
Tentando inutilmente di evitare lo sguardo di chi incontro.
Percepisco, attraverso il tessuto, la loro curiosità.
La loro morbosa voglia di sapere.
La loro inconsapevole... pietà.
Mi fissano, stringendo gli occhi in piccole fessure, quasi potessero vedermi dentro.
Ma possono davvero farlo?
E' me che guardano, o solo le foglie che sposto al mio passaggio e che sollevandosi, danzano nell'aria?
Da cosa sono attratti?
Da me?
O dai segni sul mio viso?
E' questo che vogliono davvero vedere?
Quello che si nasconde, dentro, nel buio più profondo della mia anima?
Non lo hanno ancora capito che è tutto inutile?
Che nessuno può oltrepassare quella soglia?
Perché tengo tutti a distanza.
Non voglio che nessuno si avvicini più a me.
Non voglio più essere toccata.
Sfiorata.
Non voglio più.
Mai più.
Sobbalzo. Qualcuno urta inavvertitamente la mia spalla.
Incrocio lo sguardo di questo sconosciuto, lo vedo sfilarsi gli auricolari.
Si guarda intorno, sembra esitante, quasi confuso.
Sembra fissarmi, come se... dovessi essere io a scusarmi.
Si avvicina e io inconsciamente arretro.
Un altro sussulto fa tremare il mio cuore.
I suoi occhi, verdi, come prati dopo un acquazzone estivo, così belli e così crudelmente simili a quelli che irrompono nei miei incubi, ogni notte.
"Occhi verdi.
Che sembravano sinceri quando dicevano di amarmi.
Occhi grandi, dalle folte ciglia scure.
Che si scusavano ogni volta.
E ogni volta era sempre peggio.
Occhi seducenti.
Che seguivano la morbida linea del mio corpo, quasi ad accarezzarlo, per curarne le ferite.
Occhi feroci.
Che si compiacevano nel dirmi "Sei solo una fottuta troia"
Occhi insensibili.
Che godevano nel vedermi piangere distrutta nel fisico e nell'animo.
Occhi profondi come buchi neri. Come universi inesplorati.
Che volevano solo risucchiarmi e piegarmi alla loro volontà.
Occhi, i suoi.
Che avrebbero dovuto proteggermi, invece di uccidermi ogni giorno, senza alcuna pietà".
Incontro ancora gli occhi di quello sconosciuto, leggendoci un'incertezza per me incomprensibile.
Non posso più rimanere davanti a lui. E' insopportabile.
Riprendo la mia corsa, avvertendo la presenza ostinata del suo sguardo, fino a che non scompaio dietro la curva della passerella di legno.
Mi allontano velocemente, cercando di ritrovare la concentrazione sulla corsa e sul respiro.
Il maestrale è di nuovo su di me. Con tutti i suoi profumi e le sue voci nascoste.
Lo respiro. Lo vivo. Lo faccio mio. E' una delle cose che amo di più al mondo.
Dolce e impetuoso. Proprio come il mio animo.
E' impossibile catturarlo o domarlo. Proprio come il mio cuore.
Un ribelle ostinato.
Anche se per lungo tempo avevo dimenticato di averne uno, pieno di passione e desiderio, lasciando che qualcuno continuasse a dirmi "perché non puoi essere semplicemente come le altre?", ma io non potevo, non volevo esserlo.
Anche se ho provato ad adattarmi, inseguita ed impaurita da quello sguardo, rendendomi docile e indifferente a tutto quello che mi circondava.
Rendendomi vuota.
Per essere come lui mi voleva.
Anche se non era mai abbastanza.
"Guardati... Sembri pronta per andare ad un funerale. Sorridi, così sembrerai bella. Fingi di essere felice. E smettila di atteggiarti da puttana."
Stringo i denti. La rabbia mi assale improvvisa, ricordando tutte le parole che mi hanno travolta come un fiume in piena, vomitate addosso, senza alcuna cura e che mi hanno trafitta e colpita più delle spinte, delle urla, delle strette troppo forti e di molto altro ancora.
Parole.
Taglienti, come lame di coltelli.
Corrosive, più dell'acido.
Mortali, come una pallottola dritta al cuore.
Parole.
Che mi hanno lasciato a terra, moltissime volte, viva e solo per miracolo.
Era tutto un'illusione.
Percepisco l'impatto dei piedi sul legno.
Il battito del mio cuore, che pompa inesorabile scariche di adrenalina.
Oggi la foce è aperta, trascinata dalla corrente si tuffa dritta in mare, fondendo i suoi ritmi, i suoi profumi e i suoi colori. Rimango affascinata dal volo di un piccolo airone a pelo d'acqua, lo seguo fino a che non ne perdo traccia, oltre le alte dune di sabbia, disseminate di splendide ginestre in fiore.
Le nuvole basse si rispecchiano, vanitose, sulla superficie del lago del delta, circondato da canneti, alberi di mirto e oleandri, in una danza ai miei occhi, magica e misteriosa.
Tutto sembra così vivo e luminoso.
Tutto sembra così reale e irraggiungibile al tempo stesso.
Il maestrale cattura ancora la mia attenzione con un'altra folata gelida e improvvisa.
Il cappuccio si sfila e sono costretta a fermarmi per sistemarlo.
Mentre lo faccio, incrocio lo sguardo di una bimba che si trova a pochi passi da me.
I genitori, alle sue spalle, parlano tra di loro, distrattamente, a bassa voce.
Sembrano non notarmi, solo lei mi fissa incuriosita.
"Hai la bua?" Mi chiede avvicinandosi appena.
Le faccio cenno di sì con la testa.
"Ti fa male?" Domanda ancora.
La scruto attentamente e incapace di mentirle, le dico, con un sussurro affannato, che sì, mi fa male.
"Chi te l'ha fatta?"
"L'uomo nero..." Le rispondo crudele, sperando che la finisca con tutte quelle domande.
Mi sorride dolcemente, penetrandomi con quei suoi meravigliosi occhi color nocciola, circondati da lunghe e foltissime ciglia.
"E tu non lo hai mandato via?" Mi interroga alzando, contrariata, un sopracciglio.
Le sue parole mi lasciano un po' confusa.
Scuoto la testa "Non so come si fa..." Confesso con un filo di voce.
"Devi urlare forte, fortissimo. Così lo spaventi e non torna più. A me lo ha detto la mamma, quindi ci credo." Mi sorride ancora e alza la sua manina per salutarmi.
"E cosa devo urlargli?" Le domando prima di rispondere al suo saluto.
"Che deve smettere di farti male!"
Mi lascia senza fiato.
La seguo con lo sguardo, mentre saltella incontro ai suoi genitori. I capelli schiariti dal sole, che le scendono oltre le spalle e si arricciano in morbidi boccoli.
Cerca con la mano, quella del suo papà, che ancora distratto dalle chiacchiere, non se ne accorge.
Per un breve istante, la invidio con tutta me stessa. Si sente al sicuro. Lui la fa sentire così.
Riprendo a correre, so che sono quasi arrivata al mio giro di boa.
Sette chilometri esatti.
Con lo sguardo vado alla ricerca del punto preciso, in cui la strada si piegherà in una leggera curvatura, dividendosi in varie rampe di scale che a loro volta, proseguiranno in direzione della spiaggia sottostante.
La luce di un lampeggiante, cattura la mia attenzione. Un'ambulanza ferma, con i portelloni posteriori spalancati.
Poco più avanti due macchine della polizia.
Un fischio, pungente come un ago, all'improvviso s'insinua dolorosamente nelle mie orecchie, costringendomi a togliere gli auricolari.
Che succede?
La mia corsa rallenta fino a fermarsi del tutto, mentre al contrario, il battito del cuore si fa sempre più agitato e frenetico.
La mano sfiora il corrimano. Mi affaccio appena e noto diverse persone raggruppate nel medesimo punto, sul bagnasciuga.
Il vento mi investe ferocemente, facendomi gelare all'istante.
Un barelliere, che conosco da molti anni, mi passa accanto ignorandomi e io lo seguo, provando a domandare che cosa sia capitato.
Lui sembra non sentirmi o semplicemente fa finta di non vedermi. Lo vedo proseguire verso l'ambulanza, lo sguardo commosso, scuote la testa lentamente con fare triste e rassegnato.
Mi porto una mano alla bocca, osservando la sua camminata curva e pensierosa, come se portasse il peso di tutto il mondo su di sé e sento un nodo allo stomaco, contorcermi le viscere e l'anima.
Di nuovo riporto la mia attenzione al di sotto della passerella.
E in quel preciso istante, tutto smette di muoversi.
La vedo. E' solo una frazione di secondo.
Mi sento precipitare, come risucchiata da un vortice.
La vedo e per qualche strano motivo, penso che sia bellissima.
Ma non lo è.
Nuda, violata, abbandonata alla deriva. Il respiro si spezza in un singhiozzo, carico di un dolore intenso quasi primitivo, impossibile da trattenere.
I capelli sciolti, dolcemente lambiti dall'acqua salata, le coprono parte del viso, quasi a volerla proteggere. Lacrime salate, scivolano lentamente, sulle sue guance violacee.
Il corpo disteso in una posa innaturale, le braccia adagiate sulla sabbia.
Lo sguardo vuoto e perso in un punto imprecisato nella mia direzione.
Ma io so con esattezza cosa sta fissando.
E lentamente inizio a ricordare tutto.
"Lo sento che arriva. Non sono preparata. Non lo sono mai.
Mi colpisce forte. Non so come rimango in piedi.
Mi guarda disgustato. E colpisce ancora.
Vedo il suo petto sollevarsi ed abbassarsi, in preda ad una ripugnante eccitazione.
Non è ancora soddisfatto.
Stringo gli occhi, cerco di irrigidirmi quanto posso, perché so che sta per arrivarne un altro.
Il sangue mi invade la bocca, con quel suo sapore nauseante, a cui non potrò mai abituarmi. Alzo una mano nel vano tentativo, di fermarlo.
Ma non accade.
Mi afferra per un braccio. Il suo tocco è così brutale e violento.
E colpisce, ancora, fino a che non riesco più a muovermi.
Fino a che ogni singolo osso non è frantumato.
Fino a che l'ultimo respiro non lascia il mio corpo.
Fino a che la mia anima non è fatta in mille, fragilissimi, pezzi.
E in quel preciso istante, l'ultimo della mia vita, un unico pensiero, si fa strada tra i miei ricordi.
Rivedo mio padre, in ogni piccolo, vivido dettaglio. E ripenso alla dolcezza del suo sguardo. Al modo in cui sapeva toccare i fili del mio essere, facendoli vibrare e suonare come corde di violino o come semplicemente le canne al vento.
Alla tenerezza con cui la sua mano amava sfiorare il mio viso, per farmi capire che sarebbe andato tutto bene.
Al calore della sua pelle a contatto con la mia.
E penso a come ho potuto permettere che qualcuno mi facesse tutto questo".
Stringo forte le mani alla balaustra. Incapace di trattenere oltre le lacrime.
Immergo lo sguardo dentro gli occhi di quella creatura solitaria e ferita e ritrovo me stessa.
Sconvolta, volto lo sguardo nella direzione opposta, ripercorrendo velocemente i passi che mi hanno portata qui e mi rassegno all'inevitabile verità.
Ero solo un'ombra che doveva ricongiungersi con se stessa.
Un soffio di vento che giocava con le foglie sparse sul terreno.
Un'anima persa, piena di rabbia e dolore...