Titolo: Era te che cercavo
Autore: Pedro Chagas Freitas
Editore: Garzanti
Pagine: 123
Pubblicazione: 25 Maggio 2017
Gradimento
Attratta dal titolo e
dalla sinossi, accattivante e misteriosa, ho
iniziato la lettura di questo
libro con un misto di curiosità e
interesse, per un autore che ho scoperto aver
venduto oltre
centomila copie con il suo primo romanzo, e di cui non avevo mai
letto nulla.
E che mi trovassi di
fronte ad uno strano libro, scritto in maniera
alquanto originale, con una
trama piuttosto dibattuta, avrei dovuto
capirlo sin dalla dedica iniziale.
“A
Barbara, perché tutto.”
Un libro breve, ma
intenso. Questa è stata l’impressione che ho
avuto leggendo le prime righe.
La narrazione inizia in
terza persona, al passato. Le descrizioni
sono minuziose e, grazie ai
particolari che non vengono mai
lasciati al caso, riusciamo letteralmente a
“vedere” ciò che i
personaggi stanno facendo in un determinato momento. E,
oltre ai
gesti, riusciamo a coglierne lo stato d’animo. Da uno sguardo, da
un
gesto, da un particolare movimento degli arti, dalle gocce di
sudore che
scendono lungo la fronte, le scene giungono a noi
vivide, reali, come se
stessimo guardando un film.
I dialoghi, che vengono
riportati con la tecnica del “botta e
risposta”, sono molto ritmati, e riescono
ad aggiungere mistero ad
una storia che di per sé ha già molto di misterioso. E
i lunghi
silenzi, resi nei dialoghi con tre semplici puntini di sospensione,
dicono tutto, molto più delle parole. Perché
il silenzio è reale. Il
silenzio parla (una tecnica, quella dei puntini di
sospensione
all’interno dei dialoghi, già incontrata in Sandro Veronesi).
Improvvisamente lo
stile narrativo cambia, dalla terza alla prima
persona. Scelta curiosa, che mi
ha portato a dover ricominciare
daccapo il libro per ben tre volte, perché due
mi sembravano poche
(sì, lo dico con tono ironico, ovviamente). Ed è in queste
pagine
che l’autore ci permette di seguire il libero fluire dei pensieri del
protagonista, che si accavallano nella sua mente, e che lo portano a
porsi una
domanda dietro l’altra, e gli stessi pensieri tornano a
sovrapporsi e a intersecarsi
con quelle stesse domande. Ad un
certo punto ho capito che no, non mi sembrava
di sentir parlare il
protagonista. Lui non
era di fronte a me. Ero io a essere nella sua
testa.
Se c’è una cosa che non
amo particolarmente nei libri è
l’inserimento delle tante, troppe frasi tra
parentesi tonde.
Personalmente, preferisco sempre che si ricorra all’utilizzo
delle
virgole, perché trovo che le parentesi rallentino parecchio il ritmo
della narrazione. In questo caso, però, la scelta delle parentesi è
studiata.
Sono messe lì ad hoc, per ricordarci
che siamo arrivati al
punto più alto, al”dunque”, e dobbiamo riflettere su
quanto stiamo
leggendo. Ma non sempre. A volte sono inserite per approfondire
un concetto che di filosofico non ha proprio nulla, ma sul quale l’autore ha
scelto, comunque, di soffermarsi.
“(La
soddisfazione è uno spazio temporaneo tra due
insoddisfazioni. La soddisfazione
non soddisfa nessuno. La
soddisfazione è un’illusione passeggera, la panacea
degli stati
d’animo)”
E poi, d’improvviso, di
nuovo i dialoghi. Brevi. Semplici. Diretti.
Ma questa volta niente botta e
risposta secco. È una sorta di botta e
risposta con la descrizione, sempre tra
parentesi, dei gesti che
accompagnano le parole degli interlocutori. Non mi è
mai capitato,
sinora, di lavorare a una sceneggiatura cinematografica, ma credo
che se mi trovassi nella situazione di doverlo fare, lo farei
certamente così.
Penso sarebbe la tecnica migliore.
Ed ecco che di colpo la
narrazione passa di nuovo alla terza
persona, con alcune frasi in lingua
inglese, e altre riportate in
maiuscolo che si ripetono con un ritmo ossessivo.
Perché in fondo
è proprio questa la sua. Un’ossessione.
Poi, quando ci siamo
abituati a questa alternanza tra prima e terza
persona, ecco che spunta un
altro punto di vista. Questa volta non è
più lui a parlare, ma lei. Sì, proprio
quella lei. La lei oggetto di
tutta la narrazione. Lei. Un’ossessione. Perché è
lei che crede di
vedere in tutte le donne che incontra.
Carlos António Ribeiro
da Guia parla del suo matrimonio, del suo
lavoro.
Ma davanti a sé, davanti a
tutto, c’è sempre lei. Sempre e solo lei.
Lui ci parla della sua
storia, che non è altro che la storia di lei
dentro di lui. Hanno bisogno, un
profondo bisogno l’uno dell’altra.
Sempre di più o, forse, sempre di meno. O
nulla. Ma cos’è meno di
nulla?
Pagina dopo pagina,
l’interloquire del protagonista con il lettore
assume un tono quasi
ossessionante. Un ritmo serrato, che ti
prende e ti travolge, portandoti a
divorare una riga dopo l’altra. È
un filosofeggiare incessante. Un continuo
porsi domande a cui è
impossibile dare una risposta. Perché non esiste una sola
risposta.
E non può esistere un’unica verità.
I frammenti, le
immagini, i concetti si accavallano gli uni sugli
altri, trascinandoci nel vortice
del libero pensiero.
Un libro
contradditorio. Un libro sui dubbi esistenziali. Sulla vita.
Sull’amore. Sulla
verità, contrapposta all’immaginazione. Ma che
cos’è, poi, l’immaginazione?
“L’immaginazione
è il luogo meno moralmente responsabile del
mondo. L’immaginazione ospita tutti
i pensieri che nessun altro
luogo ammetterebbe. L’immaginazione accetta tutto –
purché si
sia immaginativi, nulla è più reale dell’immaginazione.”
I temi affrontati nel
libro? La speranza. La paura. Il coraggio. La
fuga. I problemi. Le soluzioni.
La sconfitta.
“La
sconfitta è un virus. Uno sconfitto è uno che ha una malattia
socialmente
trasmissibile.”
E l’ansia (la parola
“ansia” credo sia stata ripetuta almeno decine di volte).
“L’ansia
è la parte sopportabile della paura.”
L’ansia, dicevamo.
Carlos trascorre ogni minuto della sua esistenza
pensando a lei, perché
qualunque cosa con lei può essere il
paradiso. Ogni singolo istante in attesa
di quel sì. Una parola
composta da due sole lettere, ma di una potenza immensa.
“«Sì»
è la parola più potente del mondo. «Sì» è la differenza tra
desistere e
insistere. Tutte le felicità cominciano con un «sì».”
Contrapposto, il no.
Una parola breve, semplice. Semplice come il
sì. Ma maledettamente potente.
“Un
no può essere la cosa più dolorosa del mondo. Un no può
essere la certezza più
incrollabile del mondo e può,
contemporaneamente, essere la certezza più
incerta del mondo.
Questo no non è nessuna delle due cose. È soltanto la parola
che
la speranza ha deciso di dire: la speranza parla spesso così.”
E un pensiero su tutti:
l’amore. Che cos’è, l’amore? Com’è,
l’amore? Quell’amore che è così grande da
non aver bisogno di
motivi, da sopravvivere persino alla speranza. Perché
l’amore è
così grande da amare anche ciò che non esiste. L’amore è così
grande
che non ha bisogno di una strada perché è, di per sé, una
strada. Ed è così
grande da riuscire a trovare la luce in mezzo al
buio. È così grande che anche
se cade resta in piedi. Così grande
da non cadere di fronte a nulla. Così
grande che neanche il mondo
riesce a contenerlo. Che neppure la musica riesce a
cantarlo. Che
anche quando è inquieto è in pace. Che è presente anche quando
non c’è. Così grande da trasformare tutto in poesia.
(So che molti di voi
noteranno la parola “grande” ripetuta più volte.
Non si è trattato di una
vista. Leggete il libro e capirete.)
Ho trovato bellissima e
molto vera, ahimè, la riflessione sull’animo
delle donne, vista attraverso i
comportamenti della moglie. Frasi
semplici, concise.
Pochi gesti che dicono
tutto.
Commoventi le profonde
riflessioni che ti portano a fermarti e a
pensare, a fare un raffronto tra ciò
che ti sta dicendo l’autore
attraverso i pensieri più intimi dei personaggi e
ciò che stai
vivendo o hai vissuto.
Chiudendo gli occhi, mi
è sembrato di fare un tuffo nel passato. Ho
rivissuto quelle ore seduta nel
banco, con l’amica del cuore di
fianco e il professore di filosofia che
spiegava. E spiegando ti
trasportava in un’altra dimensione, fatta di pensieri
irrazionali, che
con la loro irrazionalità riuscivano a collegarsi
perfettamente alla
tua quotidianità. Pochi gesti, molte parole. Il potere
immenso e
infinito delle parole. Le parole che ti aprono un mondo. Che ti
spiegano tutto e che, un attimo dopo, quel tutto lo mettono in
discussione.
Più si va avanti, più
rimane difficile seguire il filo del discorso.
Improvvisamente, il libro
diventa proprio un copione, con le scene
narrate come si trattasse di un film.
Ho immaginato molte
volte l’autore nell’atto dello scrivere. Il
linguaggio molto colloquiale ti porta
a “mangiare” le pagine, per
poi farti fermare improvvisamente, costringendoti a
retrocedere.
Perché ci sono frasi che devi leggere e rileggere. E poi rileggere
ancora, per fissarle nella mente e nell’anima. Per capire cos’abbia
voluto
comunicarci con quel determinato pensiero.
Improvvisamente, ti
trovi di fronte a veri e propri componimenti in
versi, inseriti in una
narrazione al limite del delirio.
Molto interessanti le
riflessioni sulla lingua, sulle espressioni più
usate e più insignificanti, che
lui definisce “plebee” (e che,
inevitabilmente, ogni qual volta le utilizzerò o
le sentirò
pronunciare, mi riporteranno alla mente quest’autore sicuramente
“sopra le righe”).
Un libro strano,
profondo. Originale. Un libro non per tutti, perché
non è da tutti apprezzare
l’arte. Un libro che farà parlare molto. E
che farà discutere. Un libro che
sarà amato o odiato. Un autore che
ha avuto coraggio, che ha osato. E che,
proprio per questa ragione,
sono convinta che verrà osannato.
La recensione vi è
sembrata complicata? Credetemi: nulla in
confronto al libro.
E ora, permettetemi di
concludere con un pensiero dell’autore, uno
de tanti, ma che tra tutti mi è
rimasto dentro, molto attuale. Il
perché non saprei dirlo. O forse sì.
“Il
problema dell’umanità non risiede nell’incapacità di mantenere
le promesse; il
problema dell’umanità risiede nell’incapacità di
non fare promesse.”
Buona lettura!
RECENSIONE SCRITTA DA GLORIA PIGINO