venerdì 23 ottobre 2020

Il silenzio

 


Quando lo nomini, va via

 

Perché è importante una riflessione sul silenzio in questo momento storico? Negli ultimi 20 anni, i modi per comunicare sono triplicati, se non di più. Possiamo parlare da un capo all'altro del mondo in tempo reale. Mandarci video, foto, documenti. Passiamo una media di 4 ore al giorno a “comunicare” sui social, ma riusciremmo a stare lo stesso tempo in silenzio assoluto?

La mia solitudine non dipende dalla presenza o assenza di persone; al contrario, io odio chi ruba la mia solitudine, senza, in cambio, offrirmi una vera compagnia.
(Friedrich Nietzsche)

Conosciamo tutti l'imbarazzante silenzio in ascensore, assieme a qualcuno che non conosciamo: stretti in quattro pareti senza sapere che dire; o quando usciamo con qualcuno con cui abbiamo poca confidenza e nessuno sa più cosa dire. Il silenzio ci imbarazza, perché non siamo abituati a lui. Ci sembra una presenza troppo ingombrante che, nel momento stesso in cui si palesa, va scacciato e riempito con parole, siano anche vuote o inutili. Ma quello che vuole dirci Nietzsche con la sua frase, è che il silenzio che doniamo a noi stessi che ci da modo di conoscerci. Quando sappiamo stare in silenzio e arriva qualcuno a “rubarcelo”per far posto a qualcosa con molto meno valore, la viviamo la situazione proprio come una vera e propria intrusione.

Il silenzio ha direttamente a che fare con l'ascolto. Il silenzio non si può creare se non si sa ascoltare. Non è un atto puramente fisico, il saper ascoltare. […] E, come in un circolo vizioso, per saper ascoltare bisogna stare in silenzio. […] Per poter entrare nel silenzio, devo saper stare zitto non solo con le parole ma anche con il corpo. Senza una certa immobilità del corpo non si può conseguire l'immobilità dello spirito1

Perché prendiamo le parole tanto sul serio? Partendo da nonno Socrate, la filosofia occidentale ha considerato il confronto verbale come un mezzo per raggiungere le più alte verità. Le parole dovevano essere scelte e utilizzate accuratamente, in modo da far splendere la luce della ragione. Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 invece i filosofi hanno cominciato a domandarsi che relazione ci fosse tra pensieri e parole, ma non sto parlando di Mogol o Battisti, ma del buon Wittgestein che disse “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo2”o “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (un caldo invito sempre attuale da rivolgere a chi parla a sproposito).

Per chi può parlare liberamente, le parole sono legate ai pensieri; ma se le parole venissero a mancare? Quante volte ci siamo chiesti come riescano a comunicare bambini nati ciechi e sordi? La storia di Helen Keller (la ragazza che ha ispirato il film “Anna dei miracoli”), dovrebbe essere da esempio. Se non siete così cinofili, posso farvi un altro nome: Maggie Simpson, la neonata ci pare pienamente in grado di formulare pensieri più o meno complessi, ma non è in grado di parlare.

Cosa viene prima, il linguaggio o il pensiero dunque?

Per Sartre la vita di una persona è caratterizzata dalla sua interazione con gli altri e tale interazione viene principalmente stabilita attraverso le parole. Tramite l'apprendimento della parola gli esseri umani si integrano per la prima volta nella società. Per lui l'amore e le attenzioni dei genitori per un bambino, lo aiutano ad esprimersi meglio tramite la parola, in quanto la sua autostima è più alta.

Se ci spostiamo invece in Oriente, il silenzio di Maggie potrebbe essere considerato quello di una persona illuminata. Confucio infatti scriveva: “Ascolta ma stai in silenzio” (..i simpatici koan di derivazione buddista...). Nella filosofia orientale le parole vengono utilizzate per indicare il mistero della vita che rimane immerso nel silenzio, da cui ha avuto origine il mondo. Essere illuminato, per gli orientali, significa tornare alle origini, liberarsi degli attaccamenti terreni e tornare all'infinita quiete della parola. Le parole non fanno altro che distruggere la pace interna. Ci attacchiamo troppo ad esse e parlando, rischiamo facilmente di ignorare la grandezza e il mistero che sta dietro la vita. Per molte scuole orientali, infatti sotto l'infelicità, vi è un eccesso di pensiero e parole. Ciò non significa che il ragionamento sia bandito, ma che occorre fare una differenziazione tra il pensiero spontaneo e quello ossessivo (chiunque abbia problemi ad addormentarsi la notte sa di che parlo, quando vi prende il loop di pensieri che non si riescono a fermare). Le parole dovrebbero servire a trasmettere la conoscenza, ma in eccesso portano stress e ansia. L'illuminazione mistica, è considerata come un ponte con il mondo naturale e tale trasformazione avviene, nella stragrande maggioranza dei casi, in silenzio. Non credo infatti abbiate mai visto qualcuno meditare parlando. In occidente invece ci piace tanto riempire le giornate di parole e molto meno di fatti.

Tali concetti vennero a inserirsi nella nostra filosofia già da Schopenhauer e Nietzsche (metà '800) per arrivare a pieno titolo a Heidegger (non posso crede di star per scrivere qualcosa di buono su di lui) che sosteneva che il silenzio fosse essenziale per vivere un'esistenza autentica mentre il parlare vano è segno di un'esistenza non autentica. Che tradotto in parole povere diviene “impara quando parlare e quando tacere” e per questo fu acclamato neanche fosse Totti all'Olimpico. Ma il caro Martin su questa storia dell'imparare a tacere, ci ha “marciato” parecchio quando, inizialmente sostenitore di Hitler, si guardò bene di far sentire la sua voce quando studenti, amante e colleghi ebrei dovettero scappare dalla Germania (lo sapevo che non riuscivo a parlare veramente bene di Hedegger).

Mai come nel XX secolo occidentale la tensione tra parola e silenzio è stata più confusa: se da un lato “il silenzio è oro” dall'altro ci dicono: “alzati e fai sentire la tua voce”, fino all'iper- comunicazione di cui parlavo a inizio del testo. Nel mondo moderno, sia Occidentale che Orientale, la difficoltà sembra essere quella di cercare di capire come rispettare gli altri, al fine di incoraggiare l'ascolto reciproco. Più che tolleranti, dobbiamo prestare attenzione, altrimenti ci saranno sempre più persone incapaci di esprimersi, che passeranno sempre di più tempo sui social network, rivolgendosi quindi a mezzi di comunicazione distruttivi che li allontano sempre di più dal mondo reale, in cui è difficile tornare una volta usciti.

1Il silenzio e l'ascolto- Franco Battiato, Lit Edizioni 2014- Frase di Panikkar

2Tractatus logico- philosphicus- L. Wittgestein

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